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Sergio Leone
C’era una volta Sergio Leone, dal West all’America

C’era una volta in America torna al cinema restaurato in 4K: ecco perché fu la chiusa perfetta della filmografia di Sergio Leone.

Di Carlo Giuliano*

Quando ero ancora un bambino ci misi del tempo, molto tempo, ad avvicinarmi a C’era una volta in America. Proprio il tempo, d’altronde, è uno dei più grandi temi dell’ultimo film di Sergio Leone, nonché dell’intera Trilogia di cui faceva parte e che proprio al Tempo era intitolata. Non era perché fossi troppo piccolo o non ne amassi il regista, o il genere: l’esatto opposto. Ero stato cresciuto coi western di Leone e coi gangster di Scorsese, ma forse proprio per questo ero restio a mescolarli, ad accettare di associare Leone a un genere in cui trovavo sfogo già con decine di altri registi. Lui era quello del western, tutti gli altri quelli dei gangster: in quello era unico e così preferivo restasse nella mia mente.

Da lì sorse proprio la domanda: perché l’ultimo film di Sergio Leone è un gangster movie? Perché dopo la Trilogia del Dollaro e i successivi due western che compongono la Trilogia del Tempo (C’era una volta il West e Giù la testa) aveva cambiato genere? Perché non un altro Il buono, il brutto, il cattivo, che tutt’oggi rimane il mio secondo film preferito nella storia del cinema – per Tarantino è il primo – e mi stupivo non poco nel sentirlo collocato subito sotto C’era una volta in America, nelle ideali “classifiche” dei film di Sergio Leone?

Da quando sorsero queste domande, molti anni fa ormai, non mi ero mai seduto a tavolino per cercare di darmi una risposta. Almeno fino a qualche settimana fa, quando Lucky Red e Leone Film Group hanno annunciato il ritorno del film al cinema il 28-29-30 ottobre, per il suo 40esimo anniversario, nella storica versione del 2012 più fedele alle volontà originali di Leone, ma per la prima volta restaurata in 4K. Al che mi sono messo a tavolino, e una risposta me la sono data: magari ovvia, magari no. Ma una risposta che, se già consideravo C’era una volta in America come un capolavoro inappuntabile, mi ha fatto capire definitivamente perché non potesse che essere l’ultimo tassello della filmografia di Sergio Leone.

L’estasi dell’oro

Per parlarvi del mio amore viscerale per i western di Leone, non saprei proprio da dove partire. Quindi vi dirò semplicemente che considero il Brutto di Eli Wallach il miglior personaggio di tutta la Trilogia del Dollaro e la scena in cui si trova al centro del cimitero di Sad Hill, inquadrato dal basso e pronto a correre all’impazzata sulle note de L’estasi dell’oro di Ennio Morricone, la mia inquadratura preferita in tutta la storia del cinema. C’è tutto in quella transizione espressiva che dallo sguardo della fatica passa alla realizzazione di avercela fatta, di essere arrivato alla fine di quell’altra, ben più lunga corsa “verso 200.000 dollari oro” che è tutto Il buono, il brutto, Il cattivo. 

Amo il Brutto perché mi ha sempre fatto un’estrema simpatia, nonostante non sia affatto un personaggio raccomandabile, a giudicare dall’interminabile lista di crimini letti a inizio film prima di appenderlo per il collo “finché morte non sopraggiunga”. Questo perché, come Tuco, la gran parte dei personaggi western di Leone sono estremamente sfumati. Anche il Buono, viceversa, non è poi così buono, tant’è che Leone sceglie come istante su cui fissare il suo soprannome su schermo proprio quello in cui sta lasciando il Brutto a morire in mezzo al deserto

Tolte alcune eccezioni – El Indio (Gian Maria Volonté), Sentenza (Lee Van Cleef), Frank (Henry Fonda) – sono tutti dei gran simpaticoni. Sono l’esatta definizione di antieroi, gente che non è meno avida o fuorilegge delle loro controparti, ma che riesce comunque a godersi piccole fette di estasi dell’oro senza troppo rompere l’anima al suo prossimo. Cosa che invece, scopriremo, non riuscirà a essere il Noodles (Robert De Niro) di C’era una volta in America; tutt’altro che un antieroe. Il perché è da ritrovare in due fattori: nel tempo e nello spazio.

C’era una volta il western

Il Far West è sempre stato il luogo (e il tempo) che meglio ha rappresentato il Sogno Americano; di più, è stato forse il più grande simbolo dell’ambizione umana, e di dove potesse trovare sfogo. Il Vecchio West è uno spazio fondamentalmente vuoto, è il risultato di una costante espansione verso Ovest delle prime colone sulla East Coast, quelle che avevano combattuto la Guerra d’Indipendenza. Pensate che lo Stato della California nasce ufficialmente nel 1850, quasi 75 anni dopo la Dichiarazione d’Indipendenza; tanti ce n’erano voluti per arrivare da una costa all’altra. In pratica, per quasi tre quarti di secolo, agli americani fu insegnato che per quanto si spingessero in là, c’era sempre qualcosa di nuovo da trovare, da scavare, da occupare. Il West è quel luogo in cui non c’è già un nome per ogni lembo di terra; ci di deve ancora spartire tutto. 

Per questo i personaggi di Leone sono sì dei cattivi, ma di una violenza quasi “vergine”, perché se vogliono qualcosa ogni tanto la rubano, ma il più delle volte la vera fortuna è ancora tutta da scoprire e non va rubata a nessuno, semplicemente trovata: i 200.000 dollari oro sotto il cimitero ne Il buono, il brutto, il cattivo; oppure l’unica fonte d’acqua della zona su cui Claudia Cardinale costruirà la cittadina di Sweetwater alla fine di C’era una volta il West. Certo, violenze ne nascono eccome da queste spartizioni, e queste diventano poi la trama di tutto il film, ma il più delle volte si consumano fra simili, fra due o tre fazioni egualmente ambiziose e non meno violente l’una rispetto all’altra: “I Baxter da una parte, i Rojo dall’altra … e io nel mezzo”. Chi sta in mezzo non è più innocente degli altri. 

Il punto è che, nel West, il Sogno Americano trova uno sfogo, il “Buono” può rimanere tale perché il suo piano è comprarsi un buon ranch, “e mi ritiro”. Non depreda tanto a lungo da diventare il cattivo, diciamo così. Certo, qualcuno a cui si stava rubando tutto quel bendidìo c’era eccome: i nativi, gli indiani. La “nascita di una nazione”, quella statunitense, si basa sul massacro di migliaia di altre tribù. Quindi il germe di una violenza incontrollata c’era eccome, ma per meglio mascherarlo gli indiani vengono costantemente deumanizzati o ancor peggio demonizzati, intenti a scalpare biondi bambini di “povere” famiglie colonizzatrici con il Winchester sempre appeso sopra il camino e sempre carico, sempre pronto a sparare. Se poi ci si mette quel famoso deputato che in una seduta del Congresso del 1869 pare abbia detto: “L’unico indiano buono è l’indiano morto”, ecco che rubare agli indiani quasi non è considerabile rubare. E non è un caso che nei film di Sergio Leone, a differenza della tradizione di John Ford e John Wayne, gli indiani non ci siano mai, scelta di grande rottura da parte dello spaghetti-western.

Ma ecco che subentra il tempo, passano altri 75 anni, quello che si poteva ottenere senza rubare ad altri è già tutto spartito, ed ecco che l’antieroe diventa un Noodles.

La menzogna del Sogno Americano

In un certo senso, C’era una volta in America non smette di essere un western: risponde alle stesse logiche, alle stesse ambizioni, alle stesse rapine in banca e assalti alla diligenza. Semplicemente i gangster sono i nuovi cowboy, fuorilegge e bounty killer, ma il tempo è passato e nel frattempo lo spazio, intorno a loro, si è ristretto. Quella piccola città di Sweetwater un tempo in costruzione è diventata una metropoli, ha instaurato una società in cui ogni pezzo di terra e ogni banconota hanno un nome sopra. Le miniere si sono svuotate e l’oro e i dollari non sono più da ricercare nelle tombe anonime di un lontano cimitero, se te li vuoi prendere devi rapinare la Federal Reserve, come progetta di fare la banda di Noodles in C’era una volta in America.

Il mondo era un tempo un posto più grande”, diceva qualcuno in un film, sentendosi rispondere: “Il mondo è sempre uguale, è il resto che è più piccolo”. La citazione non è delle più alte, proviene dal terzo capitolo dei Pirati dei Caraibi – anche se poi, western, gangsterismo e pirateria hanno molto più a scambiare di quanto si possa pensare – ma il significato è più che mai incisivo. Il punto è che si sta stretti, in questa nuova America del ‘900, ma le promesse del Sogno Americano non si sono ridimensionate in proporzione allo spazio e alle risorse. La più grande menzogna del Sogno Americano (e per evoluzione successiva, del capitalismo) è proprio la sua inesauribilità, il fatto che non arrivi mai a un punto di saturazione, che ci sia sempre l’opportunità di diventare ricchi dal nulla. Ma in un mondo in cui tutte le risorse sono spartite, diventare ricchi diventa una questione di redistribuzione, e non in senso collettivo: per avere di più tu, devi togliere a qualcun altro.

E il più delle volte, per farlo, devi depredare e uccidere. Questo rappresenta l’arco di Noodles e compagni.

La fine dell’innocenza

C’era una volta in America è uno dei più grandi film sull’epica del tempo nella misura in cui mostra proprio il passaggio dall’età infantile a quella adulta, ma non solo per un singolo, il protagonista, Noodles: per tutta l’America. E un bambino cui si è raccontato che potrà avere tutti i giocattoli del mondo, diventerà da adulto la personificazione dell’avidità, un uomo disposto a tutto per ottenere ciò che vuole, a tradire chiunque gli stia intorno e tutto ciò in cui crede, perché in realtà l’unica cosa in cui abbia mai creduto è, appunto, quel Sogno Americano.

C’era una volta in America è un gangster movie di rottura rispetto – per citarne uno – al cinema di Scorsese, perché rifiuta qualunque tipo di autoindulgenza. Certo, a dirla tutta il concetto di “punizione” appartiene alla gran parte dei gangster movie della New Hollywood: tutti i finali, da Scarface a Goodfellas a Il Padrino – Parte III, sono finali di punizione. Ma più che il biasimo c’è la pena, c’è la morale che per un Tony Montana o un Michael Corleone non può finire bene. La loro colpa è di aver desiderato troppo, ma all’atto finale non si entra nel merito delle azioni diaboliche che hanno compiuto per aver desiderato troppo. Il loro è più un peccato di hubris, di aver pensato di poter toccare il cielo, e la condanna alle azioni passa in secondo piano. Michael Corleone e Tony Montana restano antieroi, tifiamo per loro fino alla fine. 

Per Noodles invece non c’è tifo che tenga, e questo diventa doppiamente chiaro nel rapporto con Deborah. La fessura da cui la spia ballare è come uno spiraglio di bramosia aperto dal Sogno Americano, e lei diventa un oggetto di conquista e possesso al pari di un bene materiale. Per questo la caduta è ancor più rovinosa per Noodles, perché segue a una menzogna di cui è effettivamente convinto e sulla base della quale sarà sempre portato ad autogiustificarsi: “Nessuno t’amerà mai come t’ho amato io”. Ma poche battute dopo aver detto questo, compirà il più grande dei tradimenti, una violenza suprema, perché il Sogno Americano gli ha insegato a prendersi le cose con le buone o con le cattive, ma sempre e comunque a prendersele. E questa non è una giustificazione, tutt’altro: per quanto lui tenti di autoassolversi, di raccontarsi che l’ha fatto per amore, la verità è che l’ha fatto per desiderio di possesso e di conquista.

Non c’è ritorno per Noodles, agli occhi dello spettatore, da quella posa incurvata e colpevole in poi: smoking sfatto, farfallino snodato, simboli del disfacimento di una società civile e autoproclamata civilizzata, sotto la cui immagine aveva nascosto tutta la sua natura predatoria. Non c’è tifo che tenga, da quella scena in poi. Ma Noodles non morirà, Leone non ci concede neanche questo, di aggrapparci alla speranza che sopravviva fino all’ultimo; sarà proprio questo il punto, invece. Sarà questa la sua punizione: dovrà vivere per ricordare tutto il male che ha fatto e che una morte in grande stile ci avrebbe fatto depennare. L’antieroe muore e diventa martire, il diavolo vive e rimane monito, per sé stesso e per tutta l’America.

Ecco perché C’era una volta in America è, e rimane, uno dei più grandi film della storia del cinema. Perché non più 75, ma già solo 40 anni dopo la sua uscita, la sua condanna risulta doppiamente attuale. Perché tutto il mondo è Paese, perché il Vecchio è morto e il Nuovo non ha tardato a comparire, generando mostri che, nati nel chiaroscuro, imperversano ora in piena luce. Li trovate al cinema, quei mostri, dal 28 al 30 ottobre.

 

*Nato a Roma nel 1999, critico cinematografico e creator passato per web, cartaceo, social media, televisione, radio e podcast. La prima esperienza a 15 anni come membro di giuria per la XII Edizione di Alice nella Città. Dal 2019 si forma presso il mensile cartaceo Scomodo, di cui coordina anche la rete distributiva in tutta Italia. Nel 2022 svolge un master in podcasting presso Chora Media, cicli di lezioni nei licei con il Museo MAXXI ed è il vincitore del Premio CAT per la critica cinematografica. Ha collaborato con le pagine del Goethe-Institut e del Sindacato Pensionati CGIL. Dal 2021 scrive stabilmente per CiakClub, di cui è Caporedattore e principale creator.
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