Mentre Un semplice incidente arriva al cinema, scopriamo tutta l’umanità che pervade il racconto di Jafar Panahi.
Poteva essere una versione iraniana di La morte e la fanciulla, l’ultimo film di Jafar Panahi, ma ci si sono messi di mezzo gli iraniani.
In La morte e la fanciulla di Roman Polanski, una coppia che vive isolata in un paese non specificato dell’America meridionale riceve la visita di un automobilista (Ben Kingsley) che ha avuto un guasto alla sua auto e non ha trovato altri a cui chiedere aiuto se non loro due. Lei (Sigourney Weaver), nel sentire la voce di quell’uomo, riconosce la persona che l’ha torturata quando era prigioniera di un regime ormai caduto. Decide di distruggere la sua auto, legarlo e sequestrarlo in casa per farlo confessare, con grande sgomento del marito, avvocato incaricato di lavorare alla commissione crimini di guerra del precedente regime. Lei è sicura e vuole una forma di compensazione, una confessione o almeno un’ammissione di colpa.
In Un semplice incidente c’è un altro guasto automobilistico, questa volta a causa di un cane investito. Anche qui la persona a cui viene chiesto aiuto, un meccanico, riconosce il proprio torturatore da un dettaglio, sentendo il rumore del suo passo trascinato per via di una protesi a una gamba. Il giorno dopo lo rapisce ed è pronto a seppellirlo vivo. La differenza tra i due film sta nel fatto che quest’uomo è più umano e si fa venire un dubbio tra le mille suppliche dell’uomo che ha catturato, non è sicuro come lo era Sigourney Weaver del fatto che Ben Kingsley fosse il suo carnefice, e per essere certo rintraccia altre persone che erano state in carcere con lui per una conferma. È esattamente con questa decisione di girare con un furgoncino con dentro un prigioniero e tuffarsi nelle vite comuni di altri iraniani che sconfina nella commedia e si apre all’assurdo.
La morte e la fanciulla è un film bellissimo, chiuso in una casa e tratto dal dramma teatrale omonimo di Ariel Dorfman, che inscena con grande drammaticità e tensione un processo casalingo e che si fa domande su come conciliare colpa e trauma. Un semplice incidente parte con le medesime intenzioni ma viene continuamente distratto. Vorrebbe essere una storia di due persone e di un rapporto tra prigioniero e carceriere che si ribalta, facendo emergere molte domande sulla vendetta e il perdono, solo che di mezzo ci si mettono gli iraniani e tutto salta. Salta la serietà, salta la gravità (per poi tornare alla fine) e saltano il cinismo e la spietatezza.
La differenza enorme tra quel film di Roman Polanski, un polacco che adatta una storia scritta da un argentino ambientata in una nazione non specificata perché sia il più universale possibile, e questo film di Panahi, un iraniano che ha sperimentato quello che racconta e che ambienta la storia nel suo paese, sta proprio nella localizzazione. A Polanski in quella storia non interessavano le persone comuni, né lo spirito di un paese in particolare; per Panahi sono l’unica cosa che conta. Al posarsi della polvere dell’esplosione della violenza del regime rimangono solo i suoi compagni iraniani, il loro spirito, la loro umanità.
Un semplice incidente è una gigantesca scusa per raccontare come gli iraniani affrontino le tragedie. Ci sono le persone più serie, quelle sfortunate, quelle un po’ ingenue, gli scemi e i rabbiosi, c’è di tutto: chi perdona e chi no. Come in tutti i film iraniani si discute tantissimo, anche animatamente, e non si fa altro che confrontarsi: la parola conta molto, posizioni opposte possono cambiare alle volte anche repentinamente, e piccole consapevolezze farsi strada lentamente fino a essere accettate. Su tutto c’è una gigantesca umanità che pervade il racconto. Che sia vero o che sia una licenza cinematografica poco importa, chi guarda è sopraffatto dal fatto che questi personaggi siano condannati a non poter fuggire la propria compassione. Vorrebbero essere Sigourney Weaver, determinata e piena di rabbia e desiderio di vendetta, ma quando sentono che la moglie dell’uomo che vorrebbero uccidere è in ospedale corrono ad aiutare e finiscono per pagarle le cure! Tutto si chiude con un po’ di felicità e dei dolcetti, perché “si era sfiorata una tragedia!”. È un momento che probabilmente solo Panahi avrebbe saputo immaginare dentro una storia come questa.

L’abilità di questo regista, che fa film di nascosto meglio di come tutti gli altri fanno film in bella vista, sta nel mescolare questi registri così bene da sconfinare nella commedia senza negare mai il dramma e senza negarsi anche un finale molto duro; così abile da unire l’indignazione profonda, la rabbia e il desiderio di vendetta con un candore d’animo così profondo da far sospettare che sia una creazione, che sia una visione idealizzata dei suoi compatrioti. E tutto come se fosse la cosa più naturale del mondo. In La morte e la fanciulla, Sigourney Weaver a un certo punto è infuriata anche con il marito, odia anche lui, perché è più cauto, perché teme che lei possa sbagliarsi, che quell’uomo che tengono imprigionato non sia davvero chi lei crede e vorrebbe fermarla. E a noi quella sua rabbia pare legittima. Ha ragione! Dopo tutto quello che ha subito!
Invece quest’uomo incarcerato due volte, interdetto dal fare film, interdetto dal viaggiare e maltrattato per vent’anni dal suo governo, quindi da altri iraniani, quello che più di tutti dovrebbe provare il rancore di Sigourney Weaver per il proprio paese che ha consentito e consente questo, è lo stesso che idealizza gli iraniani a lui vicini, che gli vuole un bene così spasmodico che non può che ridere di loro, con loro.
E questa è in sé la cosa più commovente di tutte e, con buona pace di Roman Polanski e del suo film che rimane bellissimo, la cosa più cinematografica: usare la macchina da presa per capire le persone e voler loro bene.