Il regista Luis Ortega si racconta con umorismo tragicomico e sincerità spiazzante. Proprio come il suo film El Jockey, al cinema dal 17 luglio.
Si chiama Luis Ortega. È uno dei registi più originali del panorama latinoamericano. Nel 2018 girò un film arrivato da noi con il titolo L’angelo del crimine (El Ángel) e diventato uno dei film argentini più visti di sempre. È stato scelto per rappresentare l’Argentina all’Oscar per il Miglior Film Straniero, e poi è scomparso (se non fosse per una scappatella nella serie Narcos: Messico, di cui ha diretto un paio di episodi).
Allo scorso Festival di Venezia è riapparso, in concorso per il Leone d’Oro, con un film intitolato El Jockey. Parla di un fantino, Remo Manfredini, che sparisce pure lui per avere cara la vita, e poi riappare sotto altra forma. Come lo descrive Ortega, 45 anni ma la vitalità di un ragazzino: “Un prestigiatore che è rimasto vittima del suo stesso trucco, ed è sparito pure lui”. È interpretato dal geniale Nahuel Pérez Biscayart, un Buster Keaton dal volto alieno. Corre per il mafioso Sirena (Daniel Giménez Cacho) e sta per avere un figlio da Abril (Úrsula Corberó), fantina anche lei. Ma Remo è autodistruttivo, si imbottisce di alcool misto a droghe per cavalli, e non vince una gara da tempo. L’ultima chance è sul dorso del cavallo Mishima: giapponese, suicida, il nome è tutto un programma. La caduta rovinosa si trasformerà in fuga rocambolesca, che si trasformerà in percorso di affermazione di genere.
Perché El Jockey è cinema di genere che muta e si trasforma, proprio come racconta di sé il regista Luis Ortega. Uno che, a sentirlo parlare, somiglia tanto a un genio. Ma lui si vede più simile a un matto, a un Remo, a un Charles Manson. Perché “se fai cinema, non devi stare tanto bene di cervello”. Si racconta così, con un umorismo tragicomico e una sincerità spiazzante. Proprio come il suo film, al cinema dal 17 luglio.
Prima di El Ángel, il tuo film precedente e più grande successo, hai sempre lavorato su piccoli budget. Ma con El Jockey sei tornato a quel cinema low budget e completamente libero. Non è una scelta comune, dopo un grande successo.
Il fatto è che amo fare film low budget, ma oggi ho quasi l’impressione non si possano più fare. Il cinema spende troppo, quello che oggi chiamiamo film “indipendente”, ieri era considerato a medio-alto budget. O forse è un processo connaturato all’evoluzione della tua carriera, non saprei. Quando ho iniziato a fare cinema, con 10.000 dollari potevi tirarci fuori un film. Giravamo in pochi giorni e ci pagavo le persone, gli spostamenti e il cibo. Potrà sembrare altezzoso, perché per moltissimi esordienti 10.000 dollari possono fare tutta la differenza del mondo, ma da regista che conosce il cinema indipendente mi viene da dire che oggi non ci fai niente. Ed è un peccato: quando ho iniziato si poteva fare un film con 10.000 dollari, oggi no. Quindi non la vedo in termini di budget, che lievitano naturalmente, ma in questi termini: quando trovi la formula del film di successo, vogliono che la replichi. Fosse per loro, dovresti continuare a fare lo stesso film per il resto della tua vita.
Noto delle somiglianze con il protagonista. A lui non interessano fama e successo, è del tutto imprevedibile, un po’ come il tuo cinema e questo film. Quanto ti rivedi in Remo Manfredini?
[Ride] Più di quanto vorrei ammettere. Sicuramente ho pensato a certi produttori, mentre scrivevo il personaggio di Sirena e gli altri mafiosi. Quando scrivo, posso descrivere ciò che conosco, ciò che sento dentro. Quindi finisco sempre per scrivere personaggi che mi somigliano, che si tratti di un uomo, una donna, un neonato, un mafioso o chiunque altro. In ciascuno di loro ci sarò sempre io o una diversa variazione di me stesso. Immagino che valga per molti autori: puoi parlare solo per te stesso.
Non ci scommetterei, sai? Non tutti hanno questa umiltà…
Sai, non sempre va per il meglio. Alla fine del film, Nahuel mi ha detto: “Stavo solo imitando te”. Ma ciò che fa bene alla scrittura del personaggio, che arricchisce lui nel tuo processo di creazione e ciò che di te stesso rimetti in lui, non sempre ha un effetto positivo su chi ti sta intorno nella vita vera: tua moglie, i tuoi affetti. È come se, attraverso il personaggio, tu offrissi loro il tuo riflesso. E le persone non vogliono avere a che fare con qualcuno di imprevedibile, come il mio protagonista. In un film puoi accettarlo, ma nella vita vera… C’è da dire che Remo è imprevedibile ma sempre in senso relativo. Non è qualcuno che commetterebbe atti malvagi, per esempio. Semplicemente, muta. Cambia forma costantemente.
E la vita? Come influenza il tuo cinema? La tua, quella degli altri…
La vita cambia costantemente e quindi anche il mio cinema cambia costantemente. Non ero interessato a fare un altro El Ángel, non avrei neanche saputo come fare. El Ángel uscì che avevo 38 anni, si basava sulle consapevolezze di vita acquisite fino a quel momento e su un caso di cronaca nera piuttosto famoso in Argentina. Ma nel frattempo la mia vita si è fatta molto più interessante e volevo che il mio nuovo film parlasse di quello, delle nuove emozioni che ho scoperto in questi anni: l’amore, il sentirsi costantemente persi. El Jockey è il mio modo di stringere la mano con l’altro me stesso, di fare pace con l’idea che forse siamo tutti matti, che il mondo è un caos incomprensibile. El Jockey è un modo per venire a patti con il fatto che forse non ci capiremo mai nulla, che non saprai mai chi sei davvero. Dopo aver passato anni a cercare di darmi una risposta su questo, a cercare di trovare me stesso, ho trovato affascinante arrivare alla consapevolezza che non la troverai mai, una risposta; e fare un film su quella consapevolezza. Era un buon punto di vista da cui partire per fare un film, la giusta epifania per capire di cosa scrivere. E quella realizzazione è: certe volte, semplicemente, non ce la fai più. Cadi a pezzi. E quando si arriva a me, scrivere è l’unico momento in cui non cado a pezzi. O meglio, cado sempre a pezzi, ma attraverso la scrittura riesco a ricompormi in un film.
Quest’idea, di unire pezzi distanti, si ritrova in molti aspetti del tuo film. In particolare, penso a tre attori: Nahuel, Úrsula Corberó [La casa di carta] e Mariana di Girolamo [Ema di Pablo Larraín]. Tre volti particolarissimi, tre provenienze completamente diverse. Come li hai messi insieme?
Per me, gli attori sono l’elemento più importante del film. Sempre. Più delle luci, dei movimenti di macchina, persino della fotografia.
E Timo Salminen, il direttore della fotografia di El Jockey?
Hai ragione. Timo è il direttore della fotografia storico di Aki Kaurismäki e ha donato al mio film un aspetto che si ritrova solo nei film di Kaurismäki. Lui lo volevo fin dall’inizio. [Ironizza] Mi è costato metà del film. Ma comunque: gli attori restano la cosa più importante per me, perché non puoi trasmettere emozioni senza di loro. Certo, non è sempre vero, ci sono nomi come Werner Herzog capaci di girare un intero film senza attori o consequenzialità temporale [Fata Morgana, N.d.R.], ma parliamo di maestri. Nel mio caso, ho bisogno degli attori, ma poi non ti saprei dire come o perché scatta la scintilla. Mariana la vidi per cinque secondi in un film (che non mi piacque), ma lei semplicemente esplodeva fuori dallo schermo. Nahuel era mio vicino di casa quando eravamo bambini, ed è sempre stato un genio. E Úrsula… non avevo mai visto niente di suo, ma sono amico del compagno e una sera siamo finiti a cena tutti insieme. E lei emanava un’energia potentissima. Non ho avuto bisogno di vedere o sapere altro.
El Jockey non è solo mix di attori ma anche mix di generi. Noi lo chiameremmo un comedy-gangster, con elementi del cinema queer. Ma forse, cercare di affibbiargli una sola etichetta è proprio l’errore da non fare? È non aver capito il senso del film.
Sai, io adoro la commedia. E adoro quel modo della commedia di rappresentare un mistero, qualcosa o qualcuno a cui non sapresti dare un nome, e renderlo divertente. Come un alieno, come Remo. La commedia riesce a rendere personaggi misteriosi e inquietanti allo stesso tempo buffi e divertenti. E quel mix di sensazioni tipico della commedia è esattamente come mi sento io: ho paura, ma sono divertito da quella paura. C’è il lato tragico della vita, la consapevolezza che la vita dura tipo due ore (e poi muori). Senti costantemente questa pulsione di morte, è come se appena nato già morissi costantemente. E infatti proprio Jean Cocteau ha definito il cinema come “morte al lavoro” [“Cinema is Death at Work”]. Quindi avverti tutto il tragico che c’è, ma allo stesso tempo avverti l’assurdo, avverti la magia che sta nel mezzo fra il tragico e l’assurdo, e provi a capire il trucco che c’è dietro quella magia. Ecco, El Jockey parla di questo: di un prestigiatore che cerca così tanto il trucco dietro la magia, da diventare parte del prestigio, e sparire anche lui.
Parlando proprio della commedia e in generale delle ispirazioni dietro El Jockey: un collega esperto di Monty Python ci ha rivisto un po’ di quella comicità; io certe simbologie cristologiche di Jodorowsky. Insomma: hai un cinema che ti guida, anche solo nel tuo percorso di spettatore?
Non mi rifaccio a un’unica corrente o a una sola tipologia di comicità, proprio perché, per esempio, i Monty Python fanno commedia pura, mentre a me piace quando i generi si mescolano. Sicuramente i miei personaggi sono influenzati dalla commedia slapstick di Buster Keaton, ma c’è anche tanto di film drammatici come Mamma Roma di Pasolini. C’è il mio amore per il cinema di Tarkovskij, anche se non sarei in grado di girare neanche un’inquadratura di Tarkovskij…
Non essere così duro con te stesso.
[Ride] No no, sono serio. Quella è religione, non si tocca. È pur vero che io sto entrando nella mia fase religiosa, ma la mia è una religione del ridicolo. In generale, lascio che i miei film si scrivano da soli. Metto insieme una manciata di elementi, e poi semplicemente trascrivo ciò che il film mi suggerisce. La stessa cosa mi succede con gli attori, con cui creo questo rapporto d’amore che funziona esattamente come una storia d’amore: non sai cosa ti scatta, sai solo che è scattato. Anche qui c’è il mio modo di costruire un film: alla fin fine io decido pochissimo. Le cose, il film, semplicemente accadono nella mia testa, si impongono. E credo che questo dipenda dal fatto che non riesco a vivere di solo vivere, non mi soddisfa. Se mi piacesse vivere…
…non faresti film?
Esatto. C’è qualcosa di intrinsecamente disturbante nella vita, che mi porta a voler fare film. Nessuno sano di mente farebbe film, o quantomeno film come El Jockey. C’è una strana energia che circonda il mestiere di regista. Qualche giorno fa ho fatto visita a una scuola di cinema, in Argentina, e i docenti mi dicevano: “Per noi è importante vengano dei registi a stimolare i nostri studenti, perché non abbiamo un soldo, abbiamo i ratti che si aggirano nelle classi”. E ho pensato che fosse una cosa fantastica, per il modo in cui è in grado di scuoterti. Insomma, quanta ispirazione ti dà un ratto che ti passa sotto il banco? Per chi fa il nostro mestiere, è sempre meglio averlo, un ratto, che non averlo.
Quindi come descriveresti un regista?
Mi viene in mente quel killer, il capo della setta… Tu me lo ricordi. Aiutami. Charles…
Manson? Ti ricordo Charles Manson? Non so se prenderlo come un complimento.
Sì, gli somigli, la versione avvenente di Charles Manson diciamo. Ecco direi che un regista è un po’ come Charles Manson. Al di là della battuta macabra, pensaci: il regista deve essere una figura carismatica, che deve tenere insieme un gruppo di persone contro ogni probabilità, deve convincerle a compiere atti orribili o quantomeno a fare qualcosa che nessuno sano di mente farebbe. Charles Manson.
Ti venisse in mente di farci un film, sai dove trovarmi. Voi invece sapete dove trovare El Jockey: al cinema dal 17 luglio.